venerdì 27 agosto 2010

Sul concetto di progresso

C’è una frase di Pasolini che, ne disconosco la ragione, mi viene in mente ogni volta che vedo che vedo il traffico di Atene, o butto l’immondizia indifferenziata nel cassonetto, oppure quando accendo la luce antiecologica dell’appartamento in cui vivo. Il poeta friulano diceva: “Io credo nel progresso, ciò in cui non credo è lo sviluppo”. È difficile al giorno d’oggi riuscire a cogliere le sfumature di questa differenza, soprattutto visto che la maggior parte dei mass-media ci ha propinato negli ultimi anni i concetti di sviluppo e produttività come dei valori non solo positivi, ma positivi in assoluto, epistemologici. Qualcosa che è talmente positivo da non poter esser messo in discussione. Ebbene, in un momento in cui tutto sembra cambiare (o perlomeno potere esser messo in dubbio) sento dire che la legge 626 sulla sicurezza sul lavoro è qualcosa di cui poter fare a meno, e che “certi privilegi” (sic) dovrebbero fare spazio al mercato, altrimenti avremmo i privilegi, ma non avremmo più la fabbrica.
All’università tenemmo una lezione intera sui quei “certi privilegi”. Alla fine, nella sua steriel analisi storica, si è semplicemente chiamato Statuto dei Lavoratori, e credetemi me l’hanno fatto studiare quanto era dovuto. Per la burocrazia repubblicana, si tratta della legge parlamentare n. 300/1970, ed il padre di questa nuova legge si chiamava Giacomo Brodolini, un socialista riformatore di cui le cronache contemporanee dovrebbero ricordare più sovente il nome. La legge recava "Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento". Purtroppo, penso, questa legge prese le sembianze di un provvedimento “di sinistra”, perché frutto naturale della sua Storia, che iniziava dall’autunno caldo del 1969. Quella serie di scioperi (sindacali e non) sconvolse l’Italia, e visse persino una sua iperbole stragistica nell’attentato di Piazza Fontana. Ma come ho detto, non è questo il punto. L’importante è concentrarsi sulle parole. E da questo punto di vista, non è importante chiedersi se sia la libertà o l’attività sindacale ad essere messa in pericolo in Italia. Anzi, e aggiungo purtroppo, mi chiedo se non sia in pericolo la titolazione della prima parte della legge, ossia la “libertà” (in senso generale) e la “dignità” dei lavoratori.
Nel corso di tre mesi, la Fiat, l’azienda che più di ogni altra ha rappresentato, incredibilmente, ed ancora una volta, la concentrazione dei cambiamenti di questo Paese, ha posto il problema dell’attualità dello Statuto dei Lavoratori. A giugno, mentre era in corso lo spoglio del referendum a Pomigliano, è stato posto un aut-aut: o arriva una maggioranza bulgara al piano industriale oppure saremmo costretti a spostare la produzione ed uscire definitivamente dalla Confindustria, che non ci rappresenta. La maggioranza, che pure c’era, ma non bulgara, non è arrivata. Quando alla dignità si contrappone la produttività è semplice per un operaio il calcolo degli interessi in gioco: o stai alle mie condizioni o me ne vado da chi chiede meno di te. E così è stato.
È infine storia degli ultimi giorni il caso dello sciopero di Melfi, sempre stabilimento Fiat, in cui meglio delle altre volte si è potuto assistere allo spettacolo del muro contro muro, in cui alcuni sindacati mantenevano le loro posizioni a discapito di un’azienda che, per la prima volta dopo parecchi anni, decideva per il licenziamento di lavoratori- sindacalisti.
Delle polemiche sul meriti sono pieni i giornali, e non vale la pena qui indugiare. Ma una cosa mi chiedo: come interpreta una delle più grandi aziende italiane, il concetto di Progresso? Progresso della dignità umana, o Produttività? I concetti sono equiparabili, non c’è nessun dubbio, ma quale ha la prevalenza nel mondo globalizzato? Vogliamo rifarci ai valori del mercatismo tout court (termine caro al ministro Tremonti) oppure ci vogliamo riprendere il senso di un’economia occidentale che prima o poi dovrà rimettere l’Uomo al suo centro?
In ogni caso, io ho ancora in mente Pasolini. Ma non quello del progresso e dello sviluppo. Preferisco quello del film “Teorema”, un film che visto a diciannove anni mi ha fatto star male per tre giorni. Alla fine (e nel prologo) del film, un grande Massimo Girotti era un industriale che donava la sua fabbrica ai suoi operai. Era allora il segno delle rivincita marxista sul capitalismo, e forse questo è completamente anacronistico.
Oggi, fuori dalle ideologie, non serve la proprietà operaia dei mezzi di produzione, serve solo la loro dignità.

sabato 21 agosto 2010

La quinta busta

Visto che l’hanno fatto tutti, voglio dare anch’io un mio ricordo del Presidente emerito Cossiga. Era il 1992, e dalla Brionvega verde della mia cucina, ancora in bianco e nero, ho il ricordo nitido di un passaggio del discorso delle dimissioni del Presidente, date in diretta nazionale. Devo dire di avere guardato mia madre un po’ sconcertato, e probabilmente nemmeno lei sembrava troppo convinta. Ripensandoci, quei pensieri sembravano giusti, visto quanto poi è accaduto nel corso dell’estate, con Falcone e Borsellino. Per un incredibile meccanica, inspiegabile anche per i sociologi del tempo, ai bambini della mia età Cossiga risultava popolare quanto i personaggi dei cartoni animati della allora Fininvest, con un gradimento imbarazzante che superava addirittura quello per Gesù Bambino. Io con i miei dieci anni, non facevo certo eccezione alla media, e sebbene ci siano anche testimonianze di un mio incontro qualche anno prima con Pertini a Cortina, il “Presidente di tutti” pare non mi avesse fatto lo stesso effetto. Dall’album di famiglia risulta che ero molto più interessato a cercare di parlare con una mucca.

I ricordi sono sempre la riflessione personale di eventi storici da noi vissuti, e quando avevo cominciato qualche anno dopo, in uno stato di semi folgorazione, a divorare libri sul terrorismo italiano, avevo scoperto che Cossiga era quello che non era riuscito a salvare Moro dalle Brigate Rosse. Quel secondo nonno si era allora tramutato in una persona cattiva, un Cossiga con la “kappa”, forse in contatto con la CIA sin dal principio di quei 55 giorni, e che non aveva fatto niente per salvare colui che ai miei occhi non poteva che essere un eroe, un martire.
Ma come direbbe Andreotti, la situazione era un po’ più complessa, e l’adolescenza ha bisogno di amici e nemici, bianco o nero, stato che non aiuta certo a riflettere. Fatico a dire che sarà la Storia a giudicare quest’ uomo di Stato. Fatico, perché l’elaborazione della Storia è in mano agli uomini, che nella loro fallibilità e corruttibilità piegheranno alle loro intenzioni ogni tipo d’interpretazione. Ancora di più in Italia, dove la morte suscita più emozioni che in ogni altra società del pianeta, tanto da portare anche chi ha il dovere dell’analisi scientifica, a parlare alla pancia dei propri interlocutori, finendo per l’ennesima volta a ricordi strappalacrime sul marito fedele e padre esemplare.

In cuor mio, ho la speranza che esista una quinta busta, oltre quelle date in mano alle altre quattro cariche dello Stato. Ho la speranza che essa sia invece depositata presso uno Studio Notarile e che rechi a fronte la dicitura “per il Popolo Italiano ”. Ho la speranza che il giorno in cui i suoi congiunti leggeranno le ultime volontà del presidente emerito, il notaio dica : “un momento, vi è un ultimo testo da leggere”. Se dovesse arrivare questo momento, vorrei che ci fosse una web cam e le telecamere della televisione a riprendere, quasi fosse un ottavo e non previsto messaggio di fine anno. Mi immagino la gente seduta al bar concentrata nel sentire, i parenti delle vittime della strage di Bologna esplodere in un pianto liberatorio, la famiglia Moro stringere i pugni, i suoi “gladiatori” mordersi le labbra come evidente segno di nervosismo.

Io immagino, ma non credo che accadrà. Eppure sarebbe incredibile: sarebbe un segno del recupero del senso primario della politica quale bene della polis. Perché senza verità storica non esiste il primario bene della comunità. Sarà per questo, che nel mondo anglosassone il politico che mente è trattato peggio di quello che ruba.
Tuttavia, e purtroppo, la verità storica che farebbe così bene, si trova irrimediabilmente in antitesi con la Ragion di Stato, valore con il quale, ci piaccia o meno, dobbiamo fare i conti.

Per tutti questi motivi sospendo tutti i miei giudizi, aspettando quella quinta busta. Diciamo che colui che ha avuto responsabilità importanti nel nostro Paese, non solo politiche ma personali, e chiunque esso sia, potrà essere giudicato sulla base di questa discriminate: il coraggio. Il coraggio di far sapere agli italiani ciò che gli italiani immaginano, credono di sapere ma che ancora non sanno. Se invece di fare in modo che il loro interesse a non sapere si faccia sempre più forte, si desse forza alla ragione della Verità, forse la stessa politica ne trarrebbe un forte giovamento.

Chissà, io ci spero ancora in quella quinta busta.