domenica 4 marzo 2012

No More Excuses (breve excursus sull'approccio all'ordine pubblico)

C’era una volta il G8 di Genova, anno 2001. C’era una volta un ragazzo di nome Carlo Giuliani, con in mano un estintore che veniva ucciso da due colpi di pistola da un suo quasi coetaneo, carabiniere ausiliare, e poi schiacciato dalla camionetta dei carabinieri che cercava inutilmente di sfilarsi da quell’imbuto in cui erano finiti ed in cui erano stati lasciati soli. È la solitudine di quei due giovani, paradossale davanti al carosello di forze dell’ordine e di manifestanti in una calda giornata di luglio, ad essere il punto di unione di molte delle storie mal scritte di quest’ultimo decennio.
A Genova, una certa forma di violenza politica si è in qualche modo manifestata, una sorta di sussulto finale del mostro delle ideologie del XX secolo. Da quel momento in poi, il nulla: il 900 è stato archiviato, e con esso le distinzioni manichee fra neri, rossi, verdi o chissà quale altro colore. Il drago è morto, ora non vi sono giustificazioni, perché non c’è più chi grida chela polizia è fascista o chi guarda ad est come nel “Sogno di una cosa” di Pasolini.
Oggi, c’è un contadino su un traliccio della Val di Susa che rivendica la coltivazione della propria terra. Egli non rappresenta né la falce del simbolo socialista, né la battaglia del grano di mussoliniana memoria. Egli rappresenta sé stesso, la semplicità dei suoi diritti – doveri di cittadino sanciti dalla Costituzione repubblicana. In questa prospettiva, quali dossier di fantomatici dipartimenti di Affari Riservati, quali strumentalizzazioni mediatiche (le aggressioni alle troupe televisive degli ultimi giorni sono da comprendere in tal senso) possano tenere in piedi la farsa di una sovrastruttura composta di anarchici, violenti, o addirittura brigatisti. È la realtà nella sua struggente semplicità a colpire e a fare male, e per questo da camuffare in qualcos’altro. Il Potere deve avere paura di tutto ciò che sta avvenendo? Se è autoreferenziale certamente sì, ma se finalmente si volesse spogliare dei suoi pregiudizi e si volesse fare interprete della realtà che lo circonda, allora forse comprenderebbe le migliori mosse da fare per la pacificazione. Un nuovo e più positivo Pensiero Unico.

domenica 5 febbraio 2012

Il tecnico e quegli incontri a quattro

Italia e Grecia da sempre racchiudono un insieme di similitudini. Stessa cultura mediterranea, scambi culturali e commerciali che risalgono all’età antica, e da novembre 2011, stesso tipo di governo tecnico guidato dallo stesso tipo di persona con la stessa formazione. È la qualità di questa ultima similitudine che sconcerta. In settimana, il premier greco Papadeimos ha chiamato in rassegna i tre leader che appoggiano il suo governo in Parlamento: Karagiannis (LAOS, ultra destra), Papandreou (PASOK, centro-sinistra) e Samaras (ND, centro-destra). Più che una convocazione per un colloquio, una presa di coscienza del fatto compiuto: così si deve fare e non c’è bisogno che diciate altro.
In questi stessi giorni convulsi, il premier Monti richiama il terzetto ABC (Alfano, Bersani e Casini) per proporre la stessa non-alternatività di scelte dal sapore vagamente pubblicitario come “Salva Italia” o “Cresci Italia”. In entrambi i Paesi, tre sono le forze politiche coinvolte e racchiudono una maggioranza interna all’arco costituzionale (così si sarebbe chiamata in tempi democristiani) che non ha alcun precedente.

Qui non si tratta solo dell’abdicazione della politica al potere economico, come sarebbe gioco facile dire e come rispondono i detrattori del governo in carica. C’è un punto di congiunzione, un anello mancante che detta precise responsabilità. C’è un libro uscito da poco, “Uscita d’emergenza”, scritto da Giulio Tremonti, un uomo che prima d’essere considerato un politico è un tecnico. Un passo di questo libro recita: “…per conservare i suoi interessi, la finanza arriva all’ultimo stadio, si mette a governare in presa diretta, facendo uso di tecnici e riducendo la democrazia. Emergono i segni di un nuovo fascismo, il fascismo finanziario”. Qui c’è il riassunto di una responsabilità politica, dell’assenza (più o meno colpevole) di un controllo da parte della classe dirigente che dovrebbe avere come faro, in campo di politica economica, il Titolo III della Costituzione relativo ai rapporti economici. Titolo che parla di lavoro, equità della retribuzione, diritti sindacali, proprietà privata, ma che non parla di argomenti più “scottanti” come la finanza o la moneta.

Rimedio a questa lacuna, la classe politica odierna non ne pone, anzi si potrebbe parlare di colpevole negligenza a 360 gradi. E se è vero che Rotschild (Banchiere) una volta disse: "Datemi il controllo sulla creazione di moneta di una nazione e non mi curerò di chi fa le leggi", c’è forse da preoccuparsi.

sabato 31 dicembre 2011

La commedia degli equivoci (deliranti). Con l'occasione Vi auguro buon 2012

Buon anno. Solita frase stupida. E come gli stupidi mi faccio dei propositi per il nuovo anno che non posso mantenere. Spero nello spirito della forza di volontà.
Io credo che chiudiamo un anno fantastico. Premetto che ho un pregiudizio sugli anni bisestili, ma credo che quello che avverrà nel 2012 sia persino meglio (o peggio?) di quello che ci aspetta. Riassumendo, per me l'anno appena terminato è stato nell'ordine: Berlusconi che tromba, rivolte in Medio Oriente, guerra in Libia, morte di Bin Laden, terremoto a Fukushima, Referendum che arrivano al quorum, Lukas Papadimos, Mario Monti e Berlusconi che viene trombato.

Per la prima volta la Storia si ripete secondo un concetto assolutamente innovativo. di solito cerco di essere maggiormente aulico, ma chi ha orecchie per intendere, intenda. La fine di un anno, a seconda delle prospettive può esser vista come un bilancio o come un programma. Io preferisco vederla dalla prospettiva passata, e mi faccio delle domande. Un governo tenuto in piedi dagli stessi acerrimi nemici, un'economia di propaganda che si basa sullo spread, termine tecnico - economico che sfido a conoscere la maggior parte degli italiani (ma non solo), una fluttuazione politica che si basa su idee più o meno vecchie, che sfido a difendere chi le sbandiera. Qualche giorno fa è morto Giorgio Bocca. Lui si diceva stupito dicome l'Italia lo riusciva a sorprendere, anche quando credeva di averle viste tutte. Io ancora alle volte mi ritrovo ancora a bocca aperta come certi bambini.

Chissà cosa ci riserverà questo 2012. Io mi auguro che qualcuno posssa rialzare la testa

domenica 7 agosto 2011

L'odore dei soldi

Passeggiando per le vie di Smirne, quattro milioni di abitanti ed un deserto di cemento in piena espansione, mi rendo conto di come la modernita’ metta in discussione i principi piu’ basilari a cui ci aggrappavamo. Persino lo spirito capitalista stesso, nella forma occidentale a noi conosciuta. La Turchia di Erdogan, il primo ministro che per la prima volta nella storia della Turchia moderma ha azzerato i vertici militari in funzione democratizzante, ha raccolto oggi intorno a se’ il favore politico di una nuova classe economica emergente. I “nuovi ricchi”, punto inevitabile di sviluppo anche sociologico di qualsiasi realta’ statale che si avvicina al benessere, oggi hanno un’anima islamica, rampante, conservatrice e allo stesso tempo desiderosa di trasgredire. La schizofrenia di massa di un gruppo che tiene in mano le sorti anche dell’Europa, se si pensa che il Vecchio Continente sta oggi guardando alla Turchia come un naufrago vede una ciambella di salvataggio in alto mare.

Che fare allora dell’Etica Protestante e dello Spirito del Capitalismo, pietra miliare del pensiero economico moderno? In realtà, quando Weber scrisse la sua opera, non intese sostenere che un fenomeno economico possa essere causato direttamente da un fenomeno religioso. Mise semplicemente in relazione due fenomeni omogenei: la mentalità religiosa calvinista e la mentalità capitalista, affermando che la prima fu una pre-condizione culturale insita nella popolazione europea assai utile al formarsi della seconda.

Il raggruppamento politico che si rifa’ al Primo Ministro turco, al contrario, e’ tutt’altro che calvinista. A spiegarlo le parole del politologo turco Ahmet Insel: "L' Akp (il Partito della Giustizia e dello Sviluppo di Erdogan) è diventato una vera formazione nazionale, che non ha una base regionale, non rappresenta un gruppo sociale, non ha un colore politico preciso. Sotto a un ombrello conservatore, è riuscita a coagulare tutte le spinte per il cambiamento e la "normalizzazione" in senso democratico del Paese" . Sembra quindi che l’asse potere politico – soldi sia definitivamente saldato in una formula completamente originale per un Paese circoscritto all’area del Medio Oriente. Chissa’ se, avendo appreso in pieno dei nostri vizi, la Turchia oggi non sia veramente pronta per entrare nell’Unione Europea.

sabato 16 luglio 2011

La macchina del tempo

Corriere della Sera, 18 maggio 2011: “Lo scandalo Strauss-Kahn scuote anche il piano salva-Grecia. Il Fondo corre ai ripari e nomina Lipsky. La Merkel non incontra il delegato Fmi ad Atene”. Ai tempi delle monarchie patrimoniali (ed alcune eccellenze ancora esistono, come il Vaticano), era la commistione fra pubblico e privato ad essere la regola, tale per cui la sovranita’ sul territorio si esercitava come diritto di proprieta’ del sovrano stesso sulla propria terra. Le prime carte costituzionali, le Rivoluzioni francese ed americana, le spinte di democratizzazione, hanno poi portato allo sgretolamento di questo principio, al punto di far combaciare la sovranita’ con il concetto contemporaneo di partecipazione popolare al potere.

Come si sa, fare filosofia a stomaco vuoto e’ impresa assai difficile, e pertanto la nuova sovranita’ popolare si e’ declinata nel corso del tempo attraverso delle liberta’ che riguardano anche l’economia. Tra queste, la libera iniziativa imprenditoriale, la protezione del risparmio privato da parte dello Stato, il sindacalismo. Di fronte al riassunto appena fatto (e sicuramente troppo asciutto) di due secoli di Storia, come si deve rispondere al fatto che uno scandalo sessuale avvenuto a New York possa influenzare il destino economico di un Paese europeo? Quale logica del mondo finanziario e’ saltata se un agenzia di rating (letteralmente una societa’ privata di consulenza che misura in modo totalmente soggettivo la capacita’ di solvenza di un altro soggetto privato), possa oggi decidere del futuro di milioni di persone?
E come se l’effetto farfalla del racconto di Ray Bradbury si fosse propagato oltre le piu’ rosee aspettative degli speculatori. Non solo una singola azione o discorso può determinare imprevedibilmente il futuro dal punto di vista dell’economia, ma anche della democrazia. Col fallimento dell’economia di carta, delle teorie di chi negli ultimi 15 anni ha creduto nel mito del “lavoro obsoleto” e ha detto che nel futuro saremmo andati tutti a bordo di macchine sportive, cade anche la maschera della sovranita’ popolare. Se e’ vero, come e’ provato, che fattori esterni perdipiu’ lontani da un fenomeno politico o economico, possono trasformare la storia del mondo, ancora di piu’ non si deve credere che possano esistere liberta’ politiche distinte dalle liberta’ economiche. Non si puo’ forse ancora dire se la Storia abbia fatto un passo indietro, ma certamente non esiste la consapevolezza di quanto accade. La massmediologia fa la sua parte, avendo fatto masticare la finanza tradotta per i comuni mortali fin dai tempi della crisi post - 11 settembre. Le bolle speculative hanno finito per fagocitare il comune sentire della oikos nomia (gestione della casa), che gia’ Aristotele riconosceva come pilastro della Politica.

La soluzione a tutto questo purtroppo non e’ a portata di mano e tutte le dottrine economiche sembrano non essere sufficienti. L’unica via rimane, forse, una macchina del tempo.

venerdì 4 febbraio 2011

La Guerra Fredda finisce ora

Nel film Il caso Mattei un indimenticabile Gian Maria Volonté, interpretando il capo dell’ENI, diceva: “ Io chiedo ai Paesi produttori di lavorare con me, di sedersi allo stesso tavolo, di partecipare alle stesse speranze. Chi è più occidentale, se l’occidente non è altro che un’espressione geografica? Io, o le grandi compagnie petrolifere? ”. Mattei, quello che usava i partiti come i taxi (ipse dixit!), aveva ben in mente cosa significava chiudere col passato coloniale europeo: non certo per filantropia, ma forse perché nella sua cinica visione della geopolitica, aveva trovato nell’emancipazione del Medio Oriente la soluzione originale ai problemi di quell’area. Che poi questo fatto coincidesse con gli interessi di Mattei e la sua spregiudicatezza nel condurre gli affari, è semplicemente una coincidenza storica che oggi (purtroppo) non ha più importanza, anche se forse bisognerebbe ricordarsi del binomio petrolio-politica estera per capire molti avvenimenti di oggi.

Allora Nasser era il capo indiscusso dell’Egitto, Bourguiba il suo omologo in Tunisia, e la cultura panaraba sembrava dovesse essere l’ideologia del futuro, seppure con i dovuti distinguo che via via si sono presentati sulla scena internazionale. Il panarabismo rappresentava la soluzione ai problemi regionali di quel Terzo Mondo che emergeva dalla Guerra Fredda, ma anche la miglior strategia difensiva del mondo arabo al nemico comune: Israele. Nasser, fra gli altri, ne fu il fautore con la Repubblica Araba Unita, nata dalla fusione con la Siria. Dal 1958 e negli anni successivi, tutto questo era ampiamente giustificato dagli eventi: una concentrazione dell’attenzione politica sugli affari esteri non poteva evitarsi, tanto che le stesse superpotenze, a fasi alterne, hanno visto con favore i diversi regimi nati sulla sponda meridionale del Mediterraneo. A seguito di questo periodo di aspirazione autonomista, è però avvenuta una sorta di riassorbimento nell’orbita europea e nord atlantica dei Paesi arabi, ben diversa dal colonialismo vecchio stampo, ma che fondava il proprio potere su una base economica che in molto coincideva con questo genere di dominazione.

Oggi, la realtà ci presenta i due Paesi prima citati nel pieno di una rivolta popolare, e con due Presidenti, Mubarak e Ben Ali, successori anche ideali di Nasser e Bourguiba, travolti da una piazza che pare non poter accettare ulteriormente il potere autocratico (perché di dittatura in senso stretto non si può parlare) di due personaggi che hanno fatto il loro tempo. Alla domanda del perché ora vi siano stato questo scossone nel bacino del Mediterraneo, sarebbe gioco facile rispondere con la carta della crisi economica internazionale, che ha provocato un tale aumento dei prezzi (specie dei generi di prima necessità) oramai non più accettabile dalla popolazione. Questa è certamente una risposta corretta alla domanda, ma non di largo respiro, come il problema richiede.

Se invece si volesse dare un taglio più profondo a quest’analisi, ci si renderebbe conto che, nonostante gli stravolgimenti geopolitici avvenuti negli ultimi vent’anni, l’occidentalizzazione del mondo arabo, sempre mantenuta in vita e rinvigorita dopo l’11 settembre, è un progetto definitivamente tramontato. Se tutto ciò che sta succedendo è qualcosa di più di un fuoco di paglia, che trasformi in modo gattopardesco questi regimi in nuovi regimi simili, saremmo di fronte alla resa dei conti di contraddizioni che permisero a queste classi dirigenti di sopravvivere a sé stesse, nonostante la loro inadeguatezza, proprio per il ruolo che esse ricoprivano nello scacchiere internazionale. Se le rivolte di oggi, vorranno e riusciranno a portare a termine ciò che hanno cominciato, si aprirà ad una nuova concezione della democrazia nella regione, con mille incognite sul ruolo del potere religioso che specie in Egitto mantiene un peso non indifferente.

Davanti a tutto questo, l’Europa ex-padrona guarda dalla finestra, senza una voce comune e con la testa completamente rivolta ai bilanci pubblici di Stati membri che paiono essere la copia di quei Paesi che ora vivono nella rivolta. Speriamo si scongiuri l’effetto a catena.

venerdì 27 agosto 2010

Sul concetto di progresso

C’è una frase di Pasolini che, ne disconosco la ragione, mi viene in mente ogni volta che vedo che vedo il traffico di Atene, o butto l’immondizia indifferenziata nel cassonetto, oppure quando accendo la luce antiecologica dell’appartamento in cui vivo. Il poeta friulano diceva: “Io credo nel progresso, ciò in cui non credo è lo sviluppo”. È difficile al giorno d’oggi riuscire a cogliere le sfumature di questa differenza, soprattutto visto che la maggior parte dei mass-media ci ha propinato negli ultimi anni i concetti di sviluppo e produttività come dei valori non solo positivi, ma positivi in assoluto, epistemologici. Qualcosa che è talmente positivo da non poter esser messo in discussione. Ebbene, in un momento in cui tutto sembra cambiare (o perlomeno potere esser messo in dubbio) sento dire che la legge 626 sulla sicurezza sul lavoro è qualcosa di cui poter fare a meno, e che “certi privilegi” (sic) dovrebbero fare spazio al mercato, altrimenti avremmo i privilegi, ma non avremmo più la fabbrica.
All’università tenemmo una lezione intera sui quei “certi privilegi”. Alla fine, nella sua steriel analisi storica, si è semplicemente chiamato Statuto dei Lavoratori, e credetemi me l’hanno fatto studiare quanto era dovuto. Per la burocrazia repubblicana, si tratta della legge parlamentare n. 300/1970, ed il padre di questa nuova legge si chiamava Giacomo Brodolini, un socialista riformatore di cui le cronache contemporanee dovrebbero ricordare più sovente il nome. La legge recava "Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento". Purtroppo, penso, questa legge prese le sembianze di un provvedimento “di sinistra”, perché frutto naturale della sua Storia, che iniziava dall’autunno caldo del 1969. Quella serie di scioperi (sindacali e non) sconvolse l’Italia, e visse persino una sua iperbole stragistica nell’attentato di Piazza Fontana. Ma come ho detto, non è questo il punto. L’importante è concentrarsi sulle parole. E da questo punto di vista, non è importante chiedersi se sia la libertà o l’attività sindacale ad essere messa in pericolo in Italia. Anzi, e aggiungo purtroppo, mi chiedo se non sia in pericolo la titolazione della prima parte della legge, ossia la “libertà” (in senso generale) e la “dignità” dei lavoratori.
Nel corso di tre mesi, la Fiat, l’azienda che più di ogni altra ha rappresentato, incredibilmente, ed ancora una volta, la concentrazione dei cambiamenti di questo Paese, ha posto il problema dell’attualità dello Statuto dei Lavoratori. A giugno, mentre era in corso lo spoglio del referendum a Pomigliano, è stato posto un aut-aut: o arriva una maggioranza bulgara al piano industriale oppure saremmo costretti a spostare la produzione ed uscire definitivamente dalla Confindustria, che non ci rappresenta. La maggioranza, che pure c’era, ma non bulgara, non è arrivata. Quando alla dignità si contrappone la produttività è semplice per un operaio il calcolo degli interessi in gioco: o stai alle mie condizioni o me ne vado da chi chiede meno di te. E così è stato.
È infine storia degli ultimi giorni il caso dello sciopero di Melfi, sempre stabilimento Fiat, in cui meglio delle altre volte si è potuto assistere allo spettacolo del muro contro muro, in cui alcuni sindacati mantenevano le loro posizioni a discapito di un’azienda che, per la prima volta dopo parecchi anni, decideva per il licenziamento di lavoratori- sindacalisti.
Delle polemiche sul meriti sono pieni i giornali, e non vale la pena qui indugiare. Ma una cosa mi chiedo: come interpreta una delle più grandi aziende italiane, il concetto di Progresso? Progresso della dignità umana, o Produttività? I concetti sono equiparabili, non c’è nessun dubbio, ma quale ha la prevalenza nel mondo globalizzato? Vogliamo rifarci ai valori del mercatismo tout court (termine caro al ministro Tremonti) oppure ci vogliamo riprendere il senso di un’economia occidentale che prima o poi dovrà rimettere l’Uomo al suo centro?
In ogni caso, io ho ancora in mente Pasolini. Ma non quello del progresso e dello sviluppo. Preferisco quello del film “Teorema”, un film che visto a diciannove anni mi ha fatto star male per tre giorni. Alla fine (e nel prologo) del film, un grande Massimo Girotti era un industriale che donava la sua fabbrica ai suoi operai. Era allora il segno delle rivincita marxista sul capitalismo, e forse questo è completamente anacronistico.
Oggi, fuori dalle ideologie, non serve la proprietà operaia dei mezzi di produzione, serve solo la loro dignità.